E se Pasqua cadesse nell’emergenza?

16 marzo 2020

di: Antonio Torresin 

Non è improbabile che anche la Settimana Santa e la Pasqua ci trovino in preda alla pandemia. Si può pensare a celebrazioni “domestiche”?

Non è per fare del terrorismo, ma per un esercizio di immaginazione che credo possa essere utile. Se l’emergenza non terminasse a breve e ci costringesse a vivere i giorni di Pasqua in questa condizione, come dovremmo vivere questa circostanza così inedita? La domanda vale anche se tutto questo – e lo speriamo – non dovesse capitare, anche se le chiese potranno per quei giorni tornare a celebrare. Vale perché nell’“emergenza” “emerge” qualcosa che forse ha un significato che interroga l’essenziale della vita, anche della vita di fede.

Se non potessimo celebrare la Pasqua insieme, nelle nostre chiese aperte, dovremmo in ogni caso “celebrare la Pasqua”. Ma come? E che significato assumerebbe?

La celebreremmo nelle case. Come il popolo di Israele in esilio – quando appunto era senza tempio, senza sacerdoti – ha iscritto la celebrazione della Pasqua nella ritualità familiare, così dovremmo imparare a celebrare nelle case. Lo faremmo ponendo al centro la Parola di Dio, come le Scritture del Primo Testamento si sono fissate nel tempo dell’esilio, della diaspora.

La Scrittura è sorta come un codice identificativo, che permette al popolo di non perdersi nella dispersione. La memoria della Pasqua è al cuore delle Scritture, è il momento culmine della vita di Gesù: la celebra perché i suoi discepoli non si perdano nella prova, e questo è drammaticamente vero per noi oggi.

Le case

Celebriamo la Pasqua “restando a casa”. Lo spazio della casa è chiamato a diventare luogo del culto spirituale, dove «offrire i vostri corpi» (Rm 12,1), come dice Paolo. Le relazioni più intime, se vere, se vissute in Cristo, diventano «tempio dello Spirito» (1Cor 6,19).  Accade già, ogni giorno, nella cura del cibo, nella cura del corpo, nella malattia, nell’amore… ma ora tutto questo deve essere celebrato in memoria della Pasqua di Gesù.

Ogni famiglia deve inventarsi uno spazio con dei segni che richiamino la fede: un cero, un crocifisso, una tovaglia particolare che viene messa sulla tavola nei momenti celebrativi… Tutto questo poi potrebbe rimanere come un’esperienza che si può sempre ripetere: possiamo celebrare la fede nelle case, nella vita quotidiana, in ogni giorno.

E chi è solo? Chi nella casa vive isolato? Certo sarebbe bello se le nostre case, nel piccolo, si aprissero per momenti di preghiera condivisi. Accade già: qualcuno va dalla amica vicina a recitare il rosario… ora non potrebbe anche celebrare la Pasqua? E se si rimane soli si celebra lo stesso, perché «il Padre vede nel segreto» (Mt 6,6) della tua stanza e ascolta le tue preghiere forse ancora di più perché segrete!

Le chiese

E le chiese? Rimangono aperte. Perché rappresentano il segno che la fede non mai un fatto individualistico e neppure “familistico”.

C’è una famiglia più grande, nella quale ciascuno è inserito, di cui sentirsi parte, fratelli e sorelle e tutti insieme figli e figlie. Per questo serve una parola che venga dalla Chiesa. Quale e come? Ascoltare la predicazione del papa ci fa sentire parte di una Chiesa universale, ascoltare la parola del Vescovo ci inserisce nella Chiesa particolare di cui siamo parte; poter ascoltare anche una parola che viene dalla nostra parrocchia, richiama il legame più prossimo con una concreta comunità di credenti. Per questo è utile che i mezzi di comunicazione rendano possibile ascoltare, restando a casa la parola della Chiesa.

Questa parola non sostituisce, però, la celebrazione, vuole aiutarla, renderla possibile, metterla in moto. Se fossi un Vescovo (mi permetto questo assurdo e subito ne chiedo scusa….) non mi preoccuperei solo di mandare in onda in televisione un bel «pontificale» come se tutto fosse come prima (ma senza il popolo di Dio nulla è come prima!).

Mi rivolgerei con una parola alla diocesi, parlerei come un padre che immagina i suoi figli raccolti attorno a un tavolo di casa per pregare, e proverei ad aiutarli a celebrare la Pasqua nell’emergenza, lì dove sono, ma anche in comunione con tutta la Chiesa particolare di cui sono parte.

Il popolo di Dio

Forse questa “emergenza” è l’occasione perché «emerga» il popolo di Dio come soggetto vivo della fede. Non come soggetto passivo, che assiste ad un rito che altri per lui celebrano, ma che si scopre «popolo sacerdotale», in grado di celebrare. È un’occasione unica, non avremo – speriamo – molte altre opportunità che ci costringano a compiere quel salto di qualità che il Concilio ci ha indicato ma che fatichiamo così tanto a mettere in opera.

Tutta l’assemblea è soggetto celebrante, ovvero ogni credente deve imparare non ad “assistere” ma a celebrare attivamente. Ora può e deve farlo, altrimenti rimane un vuoto incolmabile. Questo in realtà è vero sempre: in ogni celebrazione, anche in quelle che normalmente facevamo nelle nostre chiese, anche in quelle solenni nelle cattedrali, il soggetto celebrante è tutta l’assemblea!

E i ministri, chi presiede in particolare, vive il suo servizio non per sostituire il popolo di Dio, ma per aiutarlo a sentirsi parte attiva della celebrazione. E se questo vale per ogni domenica, vale anche per la Pasqua.

I preti

In questi giorni di emergenza i preti vivono in modo strano e spesso disarticolato il loro ministero. Qualcuno è preso da un’ansia compulsiva di fare qualcosa. Si moltiplicano le messe via web, i messaggi vocali, i gruppi whatsApp che scambiano forsennatamente altri messaggi altri video… mi sembra che tutto questo provochi una cacofonia che manca di misura. Troppe parole, per nascondere silenzi imbarazzanti.

Forse i preti si sentono inutili, impotenti, privi del ruolo che prima sembrava (siamo sicuri?) certo. Credo che sia importante trovare una misura tra il desiderio di stare vicini alla gente – sacrosanto – e la capacità di accettare un vuoto, un’impotenza, un tempo “inoperoso”. Solo se si ha la fede per entrare in questo tempo sospeso, in questa mancanza, forse si potranno regalare parole che nascono dal profondo, che sgorgano da un silenzio pieno di ascolto.

Immaginando…

Ma allora che suggerimenti potremmo dare per celebrare il Triduo pasquale nelle case? Qui provo solo a dare qualche spunto minimo, nella certezza che non manchino al popolo di Dio e ai preti, la creatività per sostenere tutti i credenti nel vivere in modo «eccezionale» questa Pasqua 2020.

Giovedì Santo

Giovanni nel suo Vangelo non riporta l’ultima cena ma la lavanda dei piedi. Potrebbe questo essere un rito che in casa ogni componente può ripetere l’un l’altro, per ricordare che l’eucaristia è celebrata quando ci mettiamo a servizio gli uni degli altri.

Poi si potrebbero rileggere i testi che istituiscono il memoriale (dal libro dell’Esodo, dalla prima lettera di Paolo ai Corinti, dai Sinottici). Non possiamo celebrare l’Eucaristia in casa, ma spezzare un pane e condividerlo può rimandare al senso di quello che ogni domenica viviamo con tutti i credenti.

Venerdì Santo

Al centro del Venerdì Santo c’è la croce di Gesù e il racconto della sua morte. Diventa importante scegliere una croce da mettere al centro, che sia quella che poi ogni volta ci invita a pregare. Davanti alla croce tre momenti potrebbero essere celebrati: il racconto della passione e morte del Signore; il bacio alla croce (che diventa intimo, familiare, passando il crocifisso di mano in mano); e una preghiera universale, perché la croce ci raccoglie tutti (e in questi momenti con particolare riferimento a chi soffre per il contagio e a chi opera per la cura dei malati).

Sabato Santo

Questo è un giorno particolare dove regnano il silenzio e l’assenza di celebrazioni. Abbiamo vissuto tutta la quaresima come un lungo Sabato Santo di silenzio e senza riti. Allora questo giorno lo si potrebbe consacrare al silenzio. Si pongono i segni (una candela spenta, un crocifisso coperto, una tavola spoglia) ma sono segni dell’assenza.

Vivere la mancanza come grembo del desiderio, come tempo nel quale prepararsi all’incontro. In casa si potrebbe preparare tutto quello che poi nel giorno successivo, vuole essere motivo di festa: il cibo, i fiori, un disegno…

Domenica di Pasqua

La domenica di Pasqua la si vive come ogni domenica senza la celebrazione della messa in chiesa. Una celebrazione della Parola – non mancano i sussidi che ogni chiesa cerca di offrire per il suo popolo – che si conclude con una festa, un pranzo condiviso, un momento di gioia.

Senza dimenticare chi è solo: si potrebbe decidere di telefonare a amici e parenti, a chi sappiamo essere solo per uno scambio di auguri, per dare una parola di vicinanza e di speranza. Lo dobbiamo fare spesso, ma forse ancor più in un giorno come questo.

Sono solo suggerimenti di gesti minimi. Ma offrono l’occasione per iscrivere la fede e la sua celebrazione nella vita quotidiana, tra le mura di casa. Ora, un Triduo strano come questo, va preparato. «Dove vuoi che prepariamo per celebrare la Pasqua?» (Mt 26,17) chiedono i discepoli a Gesù.

Scopriamo anche questo: non si celebra la Pasqua se non la prepariamo. Non è come andare al cinema che basta recarsi nelle sale, pagare un biglietto e poi assistere. La Pasqua non la si assiste, la si celebra e quindi ci si prepara, forse questa volta come mai prima.

 

Fonte: http://www.settimananews.it/pastorale/se-pasqua-cadesse-nella-emergenza/

 

© 2019-2023 Parrocchia S.Giovanni Battista - P.IVA 01388190165