Sabato 9 marzo 2019 presso il Palasettembre di Chiuduno si è tenuta la Prima Assemblea Diocesana dei Consigli Pastorali Territoriali con il vescovo Francesco. Dopo la lettura da parte di mons. Vittorio Nozza, Vicario episcopale per i laici e la Pastorale, della lettera di convocazione con il programma dell’incontro, è stata proiettato un primo videoclip per illustrare cosa si intende con l’espressione “Terre esistenziali”, di cui le nuove Comunità Ecclesiali Territoriali sono chiamate a prendersi cura.

Di seguito il testo completo del video

Le Terre Esistenziali

Terre esistenziali sono gli incroci delle strade della vita: relazioni, lavoro e festa, tradizione, fragilità, cittadinanza.

Si presentano sconfinate e in gran parte sconosciute, quasi che ogni generazione non possa semplicemente ripercorrere i sentieri tracciati da chi l’ha preceduta, ma continuamente ne debba aprire di nuovi.

Le relazioni condizionano il nostro modo di camminare, a cominciare dai legami della famiglia, quanto mai oggi interpellanti.

Sono i legami con la nostre origini, con coloro che dall’inizio tutti hanno chiamato padre, madre, fratello, sorella. Un rapporto che sembra oggi più rilevante e decisivo di un tempo, in cui continuamente si ripropongono tensioni tra una rassicurazione deresponsabilizzante e necessità doverose di autonomia e responsabilità. Ma il mondo dei legami non è solo quello della famiglia.

Da qui come cerchi concentrici sempre più ampi, i legami diventano storie d’amore, amicizie, compagnie fino a connessioni virtuali. Sentimenti, emozioni, sensazioni.

È anche il mondo delle connessioni, delle amicizie social, delle relazioni virtuali.

In questo paesaggio non è raro trovare l’esperienza della solitudine. A volte come scelta e stile; ma il più invece come sofferenza e condanna.

Lo scenario dei legami e delle solitudini, non può essere separato da altri che connotano particolarmente la dimensione del futuro.

Attore protagonista è il mondo del lavoro. Dai percorsi di studio, al pane per la vita, alla paura della precarietà.

È qui che ritroviamo le scelte, i sentimenti, le speranze e le delusioni che assumono il volto delle prime esperienze lavorative, delle ricerche inutili, della precarietà e dello sfruttamento, della concretezza, della pazienza e della responsabilità, delle attese e delle pretese.

Ma non c’è lavoro senza festa, che ne dice il senso consegnando prospettive come quelle dell’abitare, del risparmiare, del sognare.

Prospettive che però assumono colorazioni cangianti.

La complessità lancia la sfida della cittadinanza, in un villaggio globale che cerca prossimità; in una società liquida che ha bisogno di solidità e di solidarietà.

In un mondo globalizzato c’è bisogno di cortile, di vicinanza. La condivisione del cammino è spesso silenziosa, in ascolto: una presenza simpatica. Condividere il cammino significa condividere la fatica, pur nella diversità di come la si sperimenta. Camminare insieme significa aprire una relazione, una reciprocità non invasiva. È vero: i giovani vogliono e devono fare la loro strada, ma non disdegnano la compagnia di chi non si sostituisce a loro, di chi non si impalca a maestro, di chi crede in loro.

La tradizione consegna allora una scommessa di senso. La comunità cristiana è chiamata a essere attenta più all’orizzonte che le si prospetta innanzi, che al percorso compiuto nel tempo. Una Chiesa in uscita, come indica Papa Francesco.

Testimoniando con le sue scelte e le sue dinamiche di essere realmente in cammino, la Chiesa non può partire da dove i giovani non ci sono e portarli lì dove non vogliono andare. Possiamo condurli dal punto in cui si trovano verso dove non avrebbero mai sognato di poter arrivare.

Giovani di ogni fede o convinzione esprimono un bisogno unanime di “compagni di cammino”, cercano guide che rispettino la libertà, fornendo gli strumenti necessari per compiere adeguatamente questo cammino.

Ogni strada, però, ha qualcuno seduto ai suoi bordi, che interpella con la fragilità. Il “disagio” di qualcuno si è globalizzato in un “presente sospeso” per tanti.

Il termine “disagio” sembra scomparso, ma non sono scomparse queste esperienze. Ha scritto inmodo forte il documento preparatorio al Sinodo dei giovani: “Assistiamo oggi ad una forma di “male dell’anima” e di “isolamento patologico” dei giovani che vivono sulla soglia di un “presente sospeso”, dove «il presente diventa il tutto e contemporaneamente diventa il niente». Oggi nei giovani vi è un assenza “patologica” di futuro sul quale è “proibito” scommettere: esiste un loro blocco verso il futuro che è la causa dell’emergenza educativa, frutto della mancata maturazione di una coscienza responsabile di fronte a sé, agli altri e al mondo”.

La definizione di stili di vita nuovi, capaci di sostenere le grandi sfide del nostro tempo come quella delle migrazioni mondiali, della sostenibilità ambientale, dell’ingiustizia globale, dell’interconnessione sempre più decisiva, del rischio della tecnocrazia, della comunicazione pervasiva, sembra essere impresa impossibile in termini comunitari e insostenibile a livello individuale: nello stesso tempo è ciò che le giovani generazioni avvertono come inevitabile e al quale già si stanno disponendo.

Siamo chiamati ad essere esploratori delle terre esistenziali nel loro insieme, concretizzando alcuni possibili passi che sono da declinare negli specifici territori.

Le relazioni ci chiedono di esplorare la privatizzazione della famiglia a favore della soggettività sociale (es. l’associazionismo familiare), attraverso rapporti intergenerazionali contro un analfabetismo affettivo che troppo spesso diventa violenza familiare.

Il lavoro e la festa ci chiedono di esplorare le criticità territoriali e le prospettive di sviluppo, per attuare sinergie virtuose tra ambiente-lavoro-sviluppo e le condizioni del lavoro e dei lavoratori.

La tradizione ci chiede di esplorare l’emergenza delle alleanze educative in un territorio che abbia generatività culturale nella cura dei processi comunicativi.

La fragilità ci chiede di esplorare il welfare di comunità, le sinergie solidali, i cambiamenti culturali, tra cui invecchiamento e sostenibilità.

La cittadinanza ci chiede di esplorare i processi democratici, la pluralità, i processi di interazione (comprende anche il tema della migrazione), la soggettività giovanile e il futuro.

Siamo chiamati ad essere costruttori di ponti nell’arcipelago delle terre esistenziali, perché per entrare in una bisogna attraversare tutte le altre, impollinandole, fecondandole.

Le grandi sfide del nostro tempo come quella delle migrazioni, della sostenibilità ambientale, dell’ingiustizia globale, riportano nella terra esistenziale delle relazioni da tessere e – come circolo virtuoso – si apre la scommessa del lavoro perché la vita possa essere anche festa, come frutto di quel seme che i rami delle tradizioni consegnano, dentro la sfida della fragilità dell’inverno, delle tempeste, delle crisi, che chiedono di coltivare con attenzione il campo della cittadinanza, come nuovo umanesimo, che farà nascere un nuovo stile di relazioni, di lavoro e di festa, di valori e tradizioni, di risposte alle fragilità, per la costruzione di una società dell’amore come stile di cittadinanza nuova e quindi di relazioni, di lavoro, di festa, di fragilità…

Ma noi sappiamo guardare al campo in cui siamo e ai campi – anzi ai terreni, magari esistenziali – che ci circondano?

 Dopo questo primo momento vi è stata la preghiera introduttiva, seguita dalla visione di un secondo videoclip, questa volta relativo alla vita della Chiesa di Bergamo.

Anche per questo video riportiamo di seguito il testo completo

Uno sguardo che genera

Dove sono i frutti? L’albero è malato? La fede si è inaridita?

La realtà ci pone delle domande davanti alle quali dobbiamo metterci la faccia.

Quale relazione c’è oggi tra opere e fede? tra opere e carità? tra opere e mentalità?

Quale visione c’è oggi della vita, della persona, del matrimonio, della famiglia? del lavoro e della festa, della giustizia e della solidarietà, dello sviluppo, del progresso, dell’economia e della finanza? dei diritti e dei doveri? della politica, della cittadinanza, della solidarietà, delle istituzioni? della scuola, dell’educazione, del futuro della felicità, dell’identità culturale e sociale? del mondo della comunicazione, della privacy? della salute e della malattia, del nascere e del morire, del disagio e della fragilità, dei poveri e dei migranti, della pace e della guerra, della sicurezza e della libertà?

Dobbiamo salvare il seme.

L’albero possente aveva tanti frutti. Ci sono riconsegnati come semi. Sono le parrocchie, le chiese, i santuari, gli oratori, le sale della comunità, le scuole dell’infanzia, le case di riposo, i centri di ascolto, i musei. Le feste, lo sport, la musica, i cre, i soggiorni, i pellegrinaggi, i bollettini e i siti parrocchiali. La diocesi, la curia, il seminario. La scuola cattolica, le attività caritative e sociali, il mondo della comunicazione, le manifestazioni. Le celebrazioni, i sacramenti, la catechesi, l’organizzazione della carità, le proposte, l’animazione, la gestione, la manutenzione, la pulizia. Le strutture e il patrimonio. I laici, i gruppi, le associazioni, le fondazioni, le società, le cooperative, i preti, i diaconi, le persone consacrate, i collaboratori, i volontari…

Ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente in un’accresciuta fedeltà alla sua vocazione. La Chiesa peregrinante verso la meta è chiamata da Cristo a questa continua riforma, di cui essa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno.

Don Camillo, scorato e pessimista, chiede al Crocifisso se per caso il mondo non stia andando verso l’autodistruzione. “Signore, la gente crede solo in ciò che vede e tocca dimenticando che esistono cose essenziali che non si vedono né si toccano: un patrimonio spirituale che l’uomo sembra voler distruggere, ma senza il quale non si può vivere, o meglio, si tornerebbe a vivere come i bruti delle caverne. Le caverne saranno alti grattacieli pieni di macchine meravigliose, ma lo spirito sarà quello del bruto”.“Don Camillo – rispose il Cristo, sorridendo bonario – bisogna fare come i contadini quando i loro campi vengono sommersi dalla piena del fiume, e cioè bisogna salvare il seme per poterlo ripiantare, quando l’acqua si sarà ritirata e il sole tornerà, in una terra che il limo avrà reso ancora più fertile. Quel seme fruttificherà, e le spighe dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza”.

Custodire il seme è accettare la sfida di un cuore che ascolta e la scommessa di uno sguardo che genera.

Custodire il seme è accettare un nuovo campo non solo da far fiorire, ma da abitare, quello delle terre esistenziali: le relazioni, il lavoro e la festa, le tradizioni, la cittadinanza e la fraternità.

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