In 1200, da tutta Italia, a Trieste. Con l’obiettivo di andare “al cuore della democrazia”, da cattolici. Dal 3 al 7 luglio ho avuto la possibilità di partecipare come delegata vescovile alla 50esima edizione delle Settimane Sociali, in virtù della collaborazione con gli Uffici Missionario e della Pastorale Sociale e del Lavoro della nostra Diocesi. Insieme a me altri quattro giovani (Stefano Remuzzi, Matteo Marsala, Francesca Nozza, Dario Acquaroli) e don Cristiano Re, delegato vescovile per la Vita Sociale e la Mondanità.  Ma cosa è significato andare “Al cuore della democrazia”?

Innanzitutto, chiedersi in che mondo siamo e quale sia la nostra società, consapevoli che la democrazia sia l’imbarcazione migliore in cui navigare nell’agitato mare della storia. E per farlo con una radicata consapevolezza, due diventano le bussole fondamentali di questo percorso: la Costituzione e il Vangelo.

Mattarella, in apertura, ha dato una definizione di democrazia interessante, capace di andare oltre il semplicistico ‘voto del popolo’; piuttosto, dovremmo considerarla come la condizione nella quale tutti possono esprimersi e possono partecipare. È chiaro, poi, che la partecipazione non possa essere improvvisata, ma va allenata, anche in senso critico rispetto alle tentazioni ideologiche populistiche.

Come fare questo, da cittadini e da cristiani?

Le giornate di studio delle Settimane Sociali partivano presto, al Centro Congressi, dove dopo le meditazioni bibliche, alcuni grandi docenti universitari conducevano la platea nel cuore del discorso, analizzando la questione da differenti prospettive. Filippo Pizzolato, per esempio, ha condotto una riflessione su come la partecipazione sia il fine della Repubblica (art. 3, c. II) e il terreno in cui si invera il fine primario dello sviluppo della persona umana; perché la partecipazione non è il rimedio per i tempi di crisi della rappresentanza, ma è vera e propria umanizzazione di rapporti sociali ed economici: non esaurisce la sua funzione nella preparazione alla decisione, ma è espressione di creatività e alimento di rapporti sociali. E in tutto questo, oggi, i partiti – che dovrebbero essere il centro nevralgico della partecipazione – non assumono il conflitto, non ci entrano, ma lo polarizzano. Si entra spesso in quello che Maria Gorli ha definito “Il mito dell’eroe”: e se cambiassimo il modo di raccontare le storie? Se invece che trovare un eroe, un protagonista risolutore del problema, si mettesse al centro la collettività? La democrazia “del noi”, basata sulla grammatica della collaborazione, è la vera trasformazione. Perché per problemi collettivi servono risposte collettive, mentre oggi è sempre più invasiva l’azione del self made man (“quello che si costruisce tutto da solo”).

Il deserto avanza. Ma guai a chi in sé cela deserti”, scriveva Nietzsche; spesso abbiamo perso la gioia di partecipare perché non ci si sente più “parte”. Ed è qui che ho sentito forte il dovere, come insegnante e come amministratrice comunale, di continuare a credere nell’importanza di condividere questo valore.

In seguito, ci si divideva in piccoli gruppi di lavoro pratico e operativo, differenti per tematiche e prospettive. Personalmente ho partecipato a quello relativo al mondo della scuola e della partecipazione giovanile alle istituzioni, portando nel confronto anche Gorle e le proposte attivate nella nostra Comunità. Questo perché la Chiesa (e non da oggi) crede fermamente in spazi, gratuiti e costruttivi, di riflessione sulla società e sulle istituzioni, e sono fermamente convinta che sia necessario ripartire dalle piccole cose – nei paesi e nei quartieri – per tornare a una passione politica che una volta era anche il cuore dell’impegno dei cattolici. La Chiesa deve stare nella collettività, sporcarsi della propria realtà, senza nascondersi dietro a massimi sistemi sulla pace e sulla giustizia; non bisogna mitizzare il passato con vene nostalgiche, ma è necessario guardare alla storia per assumersi la responsabilità di costruire qualcosa di buono nel nostro tempo: i cattolici devono voler entrare nel dibattito pubblico, non per difendere i privilegi, ma per essere voce di denuncia dove tanti non hanno voce. È questo l’amore politico!

Nel pomeriggio, fino a sera, invece, ci si spostava nel centro di Trieste. Per tutta la città erano state allestite delle piazze in cui assistere a dibattiti su diverse tematiche, a seconda dei propri interessi e sensibilità, aprendo la possibilità di partecipazione alle Settimane Sociali dei Cattolici anche ai triestini di passaggio. Ritengo di grande rilevanza questo passaggio: scendere nelle piazze e starci dentro perché la Chiesa, cioè noi e il Vangelo, ha (ancora) cose importanti da dire e da fare per la società. Oggi non è cosa scontata andare nelle piazze e parlare in modo costruttivo di politica; se lo fa la Chiesa, non può non colpire. Perché è necessario mettere ordine alla narrazione sul rapporto tra cattolici e politica, sull’unione tra Chiesa ed Enti pubblici, per il bene di una società che sia davvero partecipata.

È questo l’augurio finale di Papa Francesco, in una splendida Piazza Unità d’Italia: dopo aver sottolineato come “la democrazia non goda di buona salute”, ha invitato la comunità ecclesiale e quella civile a saper coniugare l’apertura e la stabilità, l’accoglienza e l’identità, senza scendere a compromessi sulla dignità umana. Così Trieste, città che ha la vocazione dell’incontro – perché sì il porto, ma anche incrocio tra Italia, Europa Centrale e Balcani – ha mostrato una Chiesa bella, con uno stile tutto nuovo, capace di parole sincere e di un linguaggio (finalmente) vicino alle persone.

Chiara Delmonte a nome della delegazione bergamasca a Trieste

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