Il momento centrale della Prima Assemblea Diocesana dei Consigli Pastorali Territoriali svoltasi lo scorso sabato 9 marzo è stato senza dubbio l’intervento del vescovo Francesco.

Ne riportiamo di seguito la trascrizione integrale per aiutare tutti a comprendere ancor meglio cosa sono le Comunità Ecclesiali Territoriali da poco istituite.

Abbiamo aperto con un po’ di emozione questa prima assemblea diocesana dei Consigli Pastorali Territoriali. È una emozione – per me particolare – che si alimenta a una commozione e ne siete voi il motivo: è la vostra presenza che dice non solo di una generosità, ma di una forza interiore. Rimango stupito, perché siamo tutti esposti a quella fragilità che individuiamo in altri intorno a noi: poter sostenere, con interiore forza, non solo la nostra vita, ma anche la vita di chi ci è affidato, è una autentica meraviglia. Questa meraviglia non solo mi commuove ma mi fa profondamente grato nei confronti di ciascuno di voi, non solo perché presente oggi, ma per la disponibilità alla condivisione di un percorso che proverò a rappresentare, ma che già – mi sembra in maniera significativa – avete potuto intuire attraverso le immagini che abbiamo visto.

Un percorso che vi vede protagonisti e che ha visto protagonisti persone che da tempo condividono con me questa proposta, alle quali pure voglio esprimere la mia profonda riconoscenza. Così a tutti coloro che hanno lavorato perché questo nostro incontro fosse significativo.

Il desiderio di una condivisione

Vi consegno e condivido con voi un esercizio. In questi mesi per rappresentare le Comunità Ecclesiali Territoriali (CET) ho usato tante immagini, al punto che qualcuno che mi segue dall’inizio invece che essere aiutato da questa ricchezza, a volte ho avuto l’impressione che ne sia stato disorientato. Come ho ripetuto più volte, ci troviamo di fronte ad una possibilità nuova, quindi la diversità delle immagini vuole in qualche modo evocare tutta una serie di possibilità e di novità che questa proposta contiene.

L’ultima di queste immagini è “l’esercizio”. Che cos’è la Comunità Ecclesiale Territoriale? È un esercizio di carità. E io desidero condividere con voi questo esercizio.

Un esercizio di carità, nutrito dalla fede, sostenuto e aperto alla speranza.

Se qualcuno per strada vi ferma e vi chiede che cos’è la CET, dare questa risposta può lasciare sconcertati e in qualche modo delusi.

La parola “esercizio” è comprensibile, un po’ meno a volte lo è invece il termine “carità”. È un esercizio di amore: un amore personale, comunitario, solidale. E così declinatelo. Esercizio di carità è il concetto che da cristiani usiamo per dire la ricchezza più incontenibile dell’amore, ispirata continuamente dalla fede e sostenuta da una speranza che vuole essere anche sempre una porta aperta che vogliamo mantenere.

Un esercizio che prende la forma di un cammino.

Concretamente la rappresentazione di questo esercizio di carità la possiamo delineare nell’esperienza del cammino. Per tutti è chiaro che camminare non significa stare fermi. Significa avanzare, significa percorrere un itinerario, che a volte non è tracciato. Credo che vi sia capitato nella vita aprendo voi stessi il cammino. Questo appartiene all’esperienza di cui stiamo parlando.

C’è una parola che mi piace ma non ci è abituale, o forse la evochiamo per situazioni che non sempre sono quelle più desiderate: è “processo”. Il Papa ci ha abituato a utilizzarla proprio per dire un movimento, qualcosa che si sviluppa mentre si fa.

Molte domande – ma cosa è? ma dove va? ma quali sono i contenuti? ma quale è il metodo? – trovano la sfida di una realtà processuale, che si fa mentre avviene.

Un percorso connotato dalla generatività.

Proprio sposando questo criterio, ci mettiamo nella condizione migliore per essere generativi, per creare vita, per sostenere vita, per riscattare la vita, per dare vita.

Spesso ho utilizzato per spiegare questa potenza generativa il confronto con la potenza produttiva. Noi – pur in frangente di crisi – sappiamo bene cosa significa produrre e che cosa vuol dire per una società. Siamo dei maestri nella produzione, siamo debolissimi nella generazione. La contrazione demografica ne è un segno, ma non è un problema solo demografico, ma di vita diffusa. C’è una crisi di beni, qualche volta una crisi di servizi, ma noi abbiamo bisogno di vita, di esperienze di vita, di gusto della vita, di senso della vita, di speranza della vita, di possibilità di vita. Questa è la generatività.

Quindi un esercizio di carità, nella forma del cammino e di un cammino generativo.

 Abramo è l’icona biblica che ci accompagna in questo inizio.

Un vecchio. Quando risuona questa Parola che lo mette in cammino, Abramo è vecchio. La sua legittima obiezione a Dio è “sono vecchio”. È un uomo che possiede una terra, ma che non potrà mai avere un figlio.

Abramo, il vecchio, avrà una terra che non è la sua, ma è la “terra promessa”.

Abramo, che non potrà avere un figlio, avrà “il figlio promesso”.

 Abramo, il vecchio, si mette in cammino: è qualcosa di assolutamente nuovo, che è sotto il segno di una promessa di vita. La terra è vita.

Abbiamo imparato che il destino e la destinazione della Comunità Ecclesiale Territoriale è il territorio. Non è soltanto una parte geografica, una particola della terra: il territorio è la vita, territorio sono i mondi vitali, dentro i quali le persone si riconoscono, vivono, soffrono, amano, lavorano, muoiono. Questa è la terra promessa: la vita.

La discendenza promessa, per noi, è la condivisione e la processualità.

In questo senso abbiamo declinato questa immagine che non è molto istituzionale come lo stesso nome di Comunità Ecclesiali Territoriali, come invece lo era Vicariato Locale. Così abbiamo scelto “terre esistenziale”, mentre “ambiti” è un’accezione più istituzionale.

Terre esistenziali è un concetto processuale.

È una parola più descrittiva di un cammino. Non stiamo semplicemente inaugurando una nuova istituzione. Ovviamente qualche aspetto istituzionale c’è e serve. Noi stiamo aprendo un cammino, noi stiamo esercitando in forma di cammino la carità di Cristo.

La consapevolezza di ciò che lasciamo

Per cercare di aiutarci reciprocamente a comprendere questo cammino, è importante ricordare quello che lasciamo e che conoscete bene.

Abbiamo ormai lasciato quella forma che ha una storia importante, di cinquant’anni: i 28 Vicariati Locali. Abbiamo lasciato questa terra.

Abbiamo lasciato una forma consolidata, riconosciuta anche all’esterno. Anche realtà non ecclesiali, in qualche modo avevano a fuoco l’immagine del Vicariato Locale: la diocesi grande, suddivisa in 28 parti, quindi una serie di comunità parrocchiali che rientravano all’interno dei confini di un Vicariato, che per certi versi le poteva rappresentare. Tra loro, e parrocchie, stabilivano all’interno del Vicariato Locale dei rapporti di collaborazione, promuovendo delle iniziative insieme, soprattutto di ordine formativo e caritativo.

I Vicariati Locali non ci sono più e noi abbiamo intrapreso un cammino verso una terra nuova. Non abbiamo semplicemente allargato i confini del Vicariato Locale.

Abbiamo avvertito questa esigenza. La Chiesa nella sua forma storica continuamente ha bisogno di riforma, continuamente è chiamata fuori, è chiamata a rimettersi in cammino.

Abbiamo percepito un certo svuotamento della forma del Vicariato Locale. Ricordo – con rispetto e con un po’ di sofferenza – che più della metà dei Vicariati Locali non aveva il Consiglio Pastorale Vicariale. Altri fattori interpellanti sono la contrazione numerica dei partecipanti alle proposte comunitaria, a fronte a volte di uno sforzo formativo estenuante e la percezione di un clericalismo diffuso.

Abbiamo percepito una certa stanchezza. Ci sono state belle iniziative nei Vicariati, che mi auguro possano continuare, ma spesso ormai consolidate e forse irrigidite, senza più una percezione di propositività, comunicando piuttosto quella di stanchezza.

Abbiamo percepito una certa autoreferenzialità. Questa veniva denunciata da un po’ di insofferenza interna. Gli stessi sacerdoti che in molti casi rappresentavano ormai quasi esclusivamente la figura del Vicariato, non sempre si riconoscevano in esso. Insieme vi era anche la denuncia di una certa insignificanza esterna. Pian piano il Vicariato è sembrato ripiegarsi su se stesso. Mi sembra che ci fosse da un verso una specie di sicurezza istituzionale, un po’ esteriore, un po’ formale. È una grande storia quella dei Vicariati, ma non possiamo più e solo appellarci a una grande storia: questa è appunto l’epidemia dell’autoreferenzialità.

Dobbiamo essere capaci di vedere che cosa questa storia ci consegna e che cosa questa storia ci chiede.

Una storia che, tra l’altro, ha preso una forma che per noi è essenziale, decisiva, perché appartiene al nostro modo di essere cristiani qui in Italia, qui in Lombardia, qui a Bergamo: una concentrazione sulle opere e sul fare.

È impressionante la quantità di opere che la comunità cristiana, a tutti i livelli, ha messo in atto in questi decenni ma anche secoli. Ne sono a volte travolto: decine, centinaia, migliaia di opere. Opere: dal piccolo centro di ascolto, alla struttura di assistenza raffinata a forme di disabilità gravi, per passare a un’infinità di altre realtà, alcune direttamente espressione della Chiesa, altre indirettamente ma ispirate ai valori che sono propri della comunità cristiana. Il grande interrogativo di questa molteplicità di opere è questo: quali frutti da questi alberi? È la provocazione forte del rischio della sterilità delle opere.

Oggi il rischio è quello che la cultura del bisogno sia quella che regola, che verifica, che ispira la realizzazione di nuove opere. Se c’è un Dio che è attento al bisogno dell’uomo, questo è il nostro Dio, ma questo Dio è attento a qualcosa di più del bisogno dell’uomo, è attento all’uomo, che non può essere ridotto al suo bisogno.

Le nostre opere hanno rappresentato e riescono a rappresentare oggi questa cultura evangelica che le ispira? Riescono a produrre frutti nella mentalità condivisa, nella cultura contemporanea, nella comunicazione, nel modo di pensare – di agire – di giudicare delle persone? Ci sono questi frutti come conseguenza delle opere messe in atto? O semplicemente abbiamo corrisposto a dei bisogni?

Si potrebbero fare infiniti esempi, cominciando dalle opere delle nostre parrocchie, fino ad arrivare a quelle diocesane. Ne prendo uno, limitato ma significativo: in questi tre/quattro anni noi abbiamo ospitato nelle strutture della diocesi e delle nostre parrocchie migliaia di persone provenienti da altri Paesi come pochissime diocesi in Italia. Proporzionalmente la nostra diocesi – sotto questo profilo – è stata la prima in Italia nell’ospitare in strutture ecclesiali persone in queste condizioni. Lo abbiamo potuto fare, lo abbiamo fatto bene anche col sostegno non solo professionale ma anche morale di una parte della comunità. Ma quest’opera che frutti ha portato? Come mai a tante opere, a una potenza di solidarietà impressionante non corrisponde un criterio di solidarietà diffusa che dovrebbe caratterizzare la nostra convivenza di ogni giorno?

Come mai da una parte siamo capaci ci gesti personali di volontariato sociale, di impegno ecclesiale, di associazionismo – che lasciano veramente stupiti – e poi noi stessi siamo attraversati continuamente da forme di rigidità e di chiusura che sembrano essere proprio al polo opposto delle opere fatte?

Tutto questo è diventato come atmosfera dentro la quale risuona oggi per noi la Parola del Signore: “parti dalla tua terra! comincia un cammino nuovo!”.

Perché partiamo?

Non partiamo per sopravvivere.

Non partiamo semplicemente per esplorare… anche per esplorare.

Noi partiamo per una parola che ci chiama, che non è semplicemente una parola scritta, non è semplicemente una parola evocata, non è semplicemente una sapienza, ma questa Parola è un vivente, questa Parola è Cristo!

 Noi partiamo per seguire il vivente che ci precede! “Andate in Galilea! là io vi precedo”. Noi abbiamo il dovere di andare, abbiamo il dovere di camminare, abbiamo il dovere di uscire, abbiamo il dovere di partire, abbiamo il dovere di andare in Galilea, la terra delle genti, perché là ci precede il nostro Maestro e Signore. Lui è già là. È la “precedenza” di Cristo.

Questo è un criterio che deve ispirare il lavoro delle nostre Comunità Ecclesiali Territoriali che non vanno semplicemente a portare il Signore e il suo Vangelo là dove non c’è, ma a riconoscerlo dove lui è già arrivato e noi nemmeno lo sapevamo e noi nemmeno lo immaginavamo. È la nostra sequela.

Il Papa parla di Chiesa in uscita, ma se mi è concesso non è una novità. Mi è tornato alla mente un ricordo di quasi 20 anni fa: molti di noi non pensavano che Giovanni Paolo II, santo, arrivasse al 2000. Le sue condizioni di salute erano già molto seriamente compromesse prima del grande Giubileo. Lui ci è arrivato e lo ha anche superato non di poco. Quando è arrivato sulla soglia del nuovo millennio, ha fatto sue le parole di Gesù: “Duc in altum!”, prendete il largo!

Prendete il largo, la Chiesa in uscita, le Comunità Ecclesiali Territoriali.

Non è una novità se ricordiamo anche le parole del Concilio Vaticano II: le gioie e i dolori, le attese e le speranze di tutti gli uomini, sono le gioie e i dolori, le attese e le speranze della Chiesa, degli uomini di Chiesa, dei discepoli di Cristo.

Questo è prendere il largo. Questo è aprire il cuore. Questo è quell’esercizio di carità in forma di cammino generativo che sono le Comunità Ecclesiali Territoriali.

 Dove andiamo?

La “terra promessa” che cosa è? È la vita, è la “vita promessa”.

Andare quindi vuol dire assumere fino in fondo, da cristiani, la serietà della vita, della nostra vita e della vita di tutti gli uomini. Noi manifestiamo la nostra fede nel prendere sul serio la vita degli uomini, come l’ha presa sul serio il nostro Dio. Questo vogliamo esprimere.

Non prendiamo sul serio semplicemente la difesa della Chiesa e dei suoi valori o addirittura dei suoi interessi. A noi sta a cuore la vita degli uomini, come sta a cuore a Dio.

La terra promessa verso cui andiamo è la serietà della bellezza della vita.

La vita bella, non una bella vita.

La vita bella di chi se la sta godendo nel pieno della salute, della soddisfazione di una famiglia felice, del risultato di un lavoro che porta i suoi frutti, di una partecipazione alla costruzione della comunità civile che dà soddisfazione.

Ma… c’è la vita bella di un ammalato, la vita bella di chi è al confine della sua fragilità, la vita bella di una mamma e di un papà che non sanno più che cosa fare per i loro figli, la vita bella di una precarietà o di uno sfruttamento nel mondo del lavoro…

C’è la crisi, c’è una diminuzione di beni e di servizi, c’è la paura della precarietà… ma quello che noi in modo speciale siamo chiamati a donare è il senso di una vita bella. Non solo seria, ma bella.

Proprio per questo, la terra promessa che è la vita promessa da Dio ci vede responsabili. Assolutamente e senza nessuna delega. A chi tocca? Tocca a noi! Tocca a me!

Sto parlando non della vita “cristiana”, ma della vita “umana”, anzi di quella vita che addirittura è più ampia della stessa vita umana.

L’enciclica Laudato sii ci insegna a entrare in questa visione che il Papa chiama di “ecologia integrale” in cui viene abbracciata la vita nel suo complesso, dove emerge certamente con la sua originalità la vita umana.

Dire “non solo la vita umana” ci fa pensare alla vita “dell’uomo”, di ogni uomo, addirittura ogni frammento di vita di ogni persona umana. Questa è la terra a cui siamo incamminati: la serietà della vita, la bellezza della vita, la responsabilità per la vita del mondo, dell’umanità, di ogni uomo, di ogni frammento di umanità.

Ecco perché parliamo di “terre esistenziali”.

Ecco perché il territorio delle Comunità Ecclesiali non è solo una dimensione geografica o solo una dimensione istituzionale: è il territorio della vita.

Ci siamo accorti, ad un certo punto, che parlare di “terre esistenziali” rischiava di definirle come quando di vedono su un atlante geografico le diverse nazioni: c’è la mappa politica e c’è la mappa fisica.

Le terre esistenziali sono la morfologia della vita. Non ci sono terre a fianco una dall’altra – relazioni, lavoro e festa, tradizione, fragilità, cittadinanza – collegate da ponti. Immagino piuttosto un plastico che disegna un territorio: ci sono le montagne, le valli, il lago, la città, il paese, le strade, le case: nella vita tutto si mescola. Le terre esistenziali non sono una accanto all’altra, ma sono la forma della vita.

Mi è stato chiesto tante volte: ma allora cosa dobbiamo fare? quali percorsi intraprendere?

Carissimi, se abbiamo 13 Comunità Ecclesiali Territoriali è perché quel “territorio” – cioè non solo la geografia, ma quell’ambiente, quella storia, quei mondi vitali che lo caratterizzano – va preso molto sul serio.

A me sta a cuore ad esempio la soggettività sociale della famiglia e ritengo che molte delle debolezze della famiglia sotto tanti profili derivano dalla sua privatizzazione a cui abbiamo contribuito anche noi cattolici. Bisogna far emergere quindi il valore sociale di questa realtà, che oggi assume forme anche diverse, ma la cui potenzialità riteniamo decisiva.

Ci saranno territori che sono caratterizzati dalla presenza di famiglie più giovani e questo apre un tema assolutamente rilevante, con l’incertezza che accompagna il loro futuro, accanto a cui c’è il dato importante dell’invecchiamento della nostra città e di alcune parti della nostra provincia in maniera evidentissima (pensiamo a certe valli, ad esempio). Invecchiamento, solitudine, fragilità. Da cristiani che prendono sul serio la vita cosa possiamo dire? ancor prima cosa possiamo fare? dove possiamo riconoscere il Signore che ci precede in questa condizione sofferta ma reale che caratterizza oggi il vostro della nostra provincia, oltre che del nostro Paese e dell’Europa? Stiamo lì solo a guardare, pensando a come estinguerci il più dolcemente possibile? o facciamo qualcosa di diverso? Da soli? No. Insieme!

Pensavo poi al lavoro. Se c’è una realtà in cui il problema del lavoro è infinitamente minore rispetto non solo a tante parti del mondo ma anche del nostro Paese, è la nostra. Certo, per chi è rimasto fuori, in questo momento è una realtà drammatica. Se guardiamo il volto della nostra provincia, tutti dicono: Bergamo, il lavoro! Ma, come si sta lavorando a Bergamo? Chi sta lavorando a Bergamo? in quali condizioni? che cosa significa “bella vita” oggi a Bergamo? che rapporto c’è tra il lavoro e lo sviluppo complessivo del nostro territorio? è uno sviluppo umano?

La rivoluzione digitale certamente ha molto a che fare con il lavoro. Noi siamo tagliati fuori? ci tiriamo fuori? No! Ci stiamo! Dobbiamo continuamente riproporci l’umanizzazione di questa rivoluzione perché sia umana e non solo digitale.

Se penso alla città, penso ad una città fraterna con una cittadinanza reale e non solo formale o virtuale. Quindi cosa diciamo circa forme di partecipazione nuova? Restiamo sconcertati o abbiamo qualcosa da dire? abbiamo qualcosa da fare? insieme ad altri. Abbiamo qualcosa da generare?

Tutto questo lo portiamo non lo portiamo a partire da un’idea.

A che titolo ci presentiamo? Cosa portiamo?

Siamo più bravi di altri? Abbiamo la soluzione? No.

Noi portiamo una esperienza, l’esperienza di una comunità.

Papa Paolo VI nel famoso discorso all’O.N.U. presenta la Chiesa come “esperta di umanità”. È il Papa l’esperto di umanità? o il Vescovo? Penso a voi come esperti di umanità, penso a quella realtà di cui tutti possiamo parlare che in questo momento vorrei che ne avvertissimo tutta la pregnanza: la parrocchia.

La comunità parrocchiale è quella realtà nella quale alla fine noi possiamo sempre tornare. Se uno ha una casa, dovesse smarrirsi e non sapere più dove è la sua casa, non sarà mai perduto, perché sa che da qualche parte c’è la sua casa. Fa fatica a trovarla, ci impiegherà una vita e forse non gli basterà, ma lui sa che c’è una casa per lui. Se uno non ha una casa è perduto, già prima di muovere un passo.

La parrocchia – con quei limiti che non sto a descrivere perché tutti li conosciamo bene – è la nostra casa. È la casa dell’esperienza di Dio che noi possiamo fare: così modesta, così reale.

Qualcuno dice: “sono stato in quel posto, dove ho incontrato quella persona così carismatica e quella comunità così calda…”. Sono doni di Dio, ma la mia casa è questa qui: come la mia famiglia che non è la migliore del mondo, ma è la mia.

Senza questa esperienza noi porteremo delle belle idee, addirittura delle ideologie o delle visioni, ma non è quello che ci caratterizza. Quello che caratterizza i cristiani è un’esperienza di fede, condivisa con altri, con delle caratteristiche a volte esaltanti e altre volte deludenti.

La Comunità Ecclesiale Territoriale si nutre e diventa portatrice di una esperienza il cui grembo è la parrocchia.

È il grembo del gesto quotidiano. Noi parliamo di salute, malattia, fragilità, sono temi importanti. Ma essenziale è il gesto quotidiano che avviene in una famiglia – credente o no – come cura, sollievo, premura. Penso al gesto quotidiano vissuto all’interno di una parrocchia (dal prete, dai ministri dell’Eucaristia, dalle persone che a partire dalla loro fede non dimenticano chi è provato dalla malattia, dall’infermità, dalla disabilità. Questo è il gesto quotidiano, senza il quale noi cosa raccontiamo? le grandi teorie sulle fragilità? Non è questo il nostro compito.

È il grembo della verità dei volti. Una delle nostre forze è questa. Siamo circondati da statistiche: basta schiacciare un bottone ed escono numeri da per tutto e su tutto. Noi possiamo invece raccontare la storia di volti. La comunità cristiana con tutte le sue debolezze può ancora oggi raccontare la storia dei volti delle persone. Questa è una grande forza e una grande ricchezza che abbiamo.

È il grembo in cui sperimentiamo la decisività delle relazioni. La parrocchia super organizzata, dei preti fantastici, degli operatori laici incredibili non bastano a qualificare una comunità. Una parrocchia si qualifica se e nella misura in cui le relazioni sono decisive. Non sono uno sport, non sono estemporanee. Ci si accompagna, si collabora, si condivide fino in fondo, a volte si litiga fino in fondo, a volte si confligge e si arriva ad odiarsi, ma noi sappiamo che non possiamo scappare dalla decisività delle relazioni perché questa è la nostra fede.

Noi portiamo questa esperienza, non semplicemente una idea o una teoria.

Chi parte?

Tutto quanto ho raccontato vede un naturale protagonista che è il cristiano laico.

Quello che vi ho raccontato siete voi, è la vostra vita, è il vostro quotidiano. È talmente pelle della vostra pelle, carne della vostra carne che nemmeno ve ne accorgete e spero in qualche modo di avervi fatto da specchio: siete voi. Lo siete già.

Noi siamo servitori e un servizio è quello dello specchio, perché possiate vedervi, perché possiate vedere nella modestia di ciascuno la grandezza di qualcosa di incredibile: il nostro Dio passa dalla nostra carne, dal nostro sguardo, dalla nostra intelligenza, dalle nostre competenze, dalle nostre esperienze, dalla nostra disponibilità.

Noi siamo al servizio di questa testimonianza che solo voi laici, proprio voi, in quanto siete voi potete dare. Ecco il laico!

Non è semplicemente un arruolamento: vengono meno le forze, allora facciamo una nuova campagna di arruolamento! È il riconoscimento di qualche cosa che forse in questi decenni ci è mancato un po’ troppo.

Dire che le Comunità Ecclesiali Territoriali vedono protagonisti i laici vuol dire riconoscere questa dimensione essenziale.

Il laico testimone è l’insostituibile soggetto.

A fronte di tante evocazioni di laicità che stati più o meno progrediti reclamano per se stessi, a volte con una serie di conseguenze che lasciano sconcertati, dico che un cristiano laico è un “maestro di laicità”, perché non c’è nessuno come il Cristo e il suo Vangelo che ha preso sul serio l’umanità dell’uomo e noi – modestamente pur con le nostre contraddizioni – vogliamo seguire quella strada. Questa è la laicità del cristiano: prendere sul serio l’umanità dell’uomo.

Come è possibile?

Le modalità per camminare, per portare, per andare, per esercitare la carità sono tante. Qui c’è però una scelta che vi indico: ritengo necessario convenire su questa scelta.

Noi non vogliamo rappresentare o costituire un’alternativa. Il Vangelo è comunque e sempre alternativo. Lo stile di vita cristiano del singolo o la testimonianza di una famiglia cristiana oggi si pongono comunque come alternativa. Noi non vogliamo costruire un mondo alternativo. Noi non vogliamo costruire un muro tra il mondo cristiano a fianco o peggio contrapposto al mondo non cristiano.

La nostra non è nemmeno una scelta di presenza, nel senso di voler occupare più spazi possibili perché più spazi occuperemo con i cristiani e più il mondo diventerà migliore.

Non è nemmeno la scelta della diaspora: oggi non è più il tempo della rappresentazione della Chiesa nella sua unitarietà con i grandi contenitori del mondo cattolico, perciò ognuno vada per la sua strada e dia la sua testimonianza. Non pensiamo a questo.

La nostra è la scelta della mediazione culturale e della sua potenzialità generativa.

Noi vogliamo impegnarci a far sì che ciò che il Vangelo rappresenta possa diventare fermento di una vita vivibile e umanamente degna per tutti.

Ci sono state epoche diverse in cui questo è avvenuto in maniere diverse: oggi noi dobbiamo trovare il nostro modo, un modo nuovo. Non è semplice.

Mio nonno era contadino. Quando si raccoglieva il grano, lo portava al mugnaio che lo macinava. Quindi mio nonno portava a casa i sacchi di farina, ma in parte li lasciava al mugnaio perché li conservava bene. A casa metteva la farina nella madia. Mia nonna apriva la madia, prendeva la farina e faceva il pane. In questi giorni sono stato a Cuba, dove ci sono i nostri missionari: è la zona orientale, la zona più povera di Cuba. Non c’era la farina bianca per fare il pane. Oggi noi siamo in una situazione in cui – per stare all’immagine – apriamo la madia per fare il pane, ma la farina non c’è più. Bisogna tornare a coltivare il grano, a macinarlo, e finalmente faremo il grano.

La mediazione culturale è la necessità di macinare il Vangelo e impastarlo dentro le condizioni di vita attuali. Non è una nostalgia del passato. Come “oggi” posso vivere le relazioni familiari e amicali, il mondo del lavoro così in trasformazione, il tema delle fragilità sempre più delicate?

La nostra scelta è macinare il Vangelo e impastarlo con questa vita.

La vita di tutti, insieme con tutti.

Allora, diamoci un po’ di tempo. Ci sono 5 anni. Non dobbiamo avere fretta.

Non dobbiamo avere fretta di produrre.

Un pane – come quello che ho evocato – non è un prodotto, ma una generazione. Per generare non si può andare troppo in fretta.

Il vostro consiglio, la condivisione, la passione, il dialogo nelle diverse terre esistenziali, l’individuare un percorso che può essere anche comune. Abbiamo indicato cinque terre esistenziali, potrebbero essere di più, o anche solo una sulla quale convergiamo perché troviamo che nel nostro territorio siamo particolarmente interpellati su questo.

Ci diamo tempo per incontrare, per riconoscere il Signore che ci precede, per avviare possibilità che facciano germinare vita.

Alla fine dei 5 anni non sarò qui a chiedervi: che cosa avete prodotto? quali opere sono nate? ma vi chiederò: quali frutti sono maturati?

È questione di vita, non di produzione.

È questione di frutti, non di prodotti.

È questione di relazioni, non di organizzazioni.

È questione di sguardi, non di convenzioni.

Care sorelle e fratelli, la Comunità Ecclesiale Territoriale è un nome, è un volto, è una novità, è il volto della Chiesa sul territorio, è il volto della Chiesa nella vita di tutti gli uomini, il volto dei cristiani nella terra della vita.

In questi mesi ho sentito spesso parlare al plurale di Comunità Ecclesiali Territoriali. Bisogna cominciare a declinarlo al singolare. Che cos’è la Comunità Ecclesiale Territoriale? È il volto dei cristiani non solo su uno specifico territorio geografico, ma nel territorio della vita di tutti gli uomini.

Se ci può essere uno slogan, è questo: “Ricominciamo dalla vita, dalla vita di tutti!”

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